Barberino Val d'Elsa, intervista al missionario Don Antonio Mazzuccato
«Ogni volta che rientro qui mi chiedo sempre se sia l'ultima: del ritorno in Congo o della mia vita, o di tutte e due insieme». Don Antonio Mazzuccato è toscano d'adozione essendo nato a Bolzano, ma forse sarebbe più corretto dire che è africano d'adozione, visto che ha speso cinquant'anni della sua vita fra lo Zaire e il Congo, per poter realizzare la sua vocazione missionaria. Ordinato sacerdote nel 1966, Don Antonio aveva ben chiaro fin dalla sua adolescenza quale sarebbe stato il suo percorso di vita: fare il missionario non per convertire ma per aiutare e amare
Don Antonio quando è cominciata la sua avventura nel Terzo Mondo?
«Dopo aver frequentato il Collegio Teologico Internazionale a Roma, ho chiesto che mi fosse assegnata una missione. Nel 1967 sono partito per lo Zaire dove ho frequentato l'Università, imparando la lingua Kiswahili e occupandomi per due anni delle pubblicazioni Paoline in quel Paese. Ma il mio desiderio era un altro e finalmente due anni più tardi sono riuscito a raggiungere i villaggi più lontani, spesso abbandonati da anni nella foresta pluviale e là, in mezzo a loro e con loro, ho iniziato una nuova vita in simbiosi con la natura».
Cosa vuol dire condividere la vita con gli abitanti di un villaggio sperduto?
«Vuol dire rinunciare ad una vita comoda e tranquilla e adeguarsi alle condizioni di vita della foresta equatoriale, dove in alcuni casi non esisteva neanche una missione, o magari era stata abbandonata più di venti anni prima. Ho dormito su stuoie di paglia, su letti arrugginiti in catapecchie abbandonate, ho mangiato quello che loro mangiavano e che nella loro povertà mi offrivano con generosità. Ho attraversato la foresta equatoriale con mezzi di fortuna, in lungo e in largo per raggiungere villaggi isolati portando aiuto e conforto alle comunità cattoliche, ma accolto con benevolenza anche da musulmani e protestanti che mi chiedevano di benedire le loro capanne, perfino gli stregoni mi aprivano la porta».
Quindi è nello Zaire che ha speso cinquant'anni della sua vita?
«Gli ultimi venticinque anni li ho trascorsi fra i Pigmei dell'Ituri nel Nord Kivu, dove nel 1990 mi ha affiancato mio fratello gemello Benito, insegnante in pensione. La Repubbica Democratica del Congo è da sempre vittima di eccidi, tormentata da una forte instabilità politica intensificatasi negli ultimi anni a causa di forti contrasti politici che si intrecciano con dinamiche economiche che trovano le loro radici ai tempi del colonialismo. Il Paese è stato vittima di guerre civili dietro le quali ci sono gli interessi di europei, asiatici e americani che io definisco sciacalli affamati di materie prime forestali e minerarie. La Repubblica del Congo è un Paese ricco di giacimenti minerari che hanno alimentato il traffico di diamanti e coltan utilizzato in campo medico ed aerospaziale, l'industria elettronica ne fa largo uso per la produzione di cellulari e schermi al plasma. Il saccheggio delle proprie risorse naturali e la deforestazione hanno prodotto un genocidio che non ha fine e il popolo della foresta, i Pigmei, sono quelli che ne pagano le conseguenze più di altri. Per questo motivo in questi venticinque anni ho combattuto in prima persona per tutelare i diritti e il territorio di quella popolazione aiutandoli ad impadronirsi degli strumenti conoscitivi basilari per non subire passivamente gli effetti della colonizzazione. Essenziale fornirgli le basi culturali e pratiche per sottrarsi allo sfruttamento schiavistico di altre popolazioni più emancipate, iniziando dall'alfabetizzazione dei bambini, procurandogli strumenti per la sopravvivenza attraverso l'agricoltura, oltre la caccia e la pesca già in uso, insegnando l'artigianato del legno, la meccanica, il cucito. Naturalmente il nostro lavoro è stato contrastato con violenza perché ha fornito a quel popolo gli strumenti per evolversi ed autogestirsi rendendolo più forte e più determinato nella difesa dei propri diritti. Per questo motivo siamo stati presi di mira anche dai soldati governativi che per ben due volte ci hanno distrutto tutto costringendoci a ricominciare da zero. Abbiamo letteralmente rischiato la vita, tanto che quest'anno siamo stati accompagnati al più vicino aeroporto da collaboratori amici con il consiglio di restare in Italia fino a nuovo ordine».
Chi vi ha protetto in questi anni per difendervi dai ribelli da una parte e dalle forze governative dall'altra?
«Soltanto alcuni amici locali ci aiutano. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, si limitano ad operazioni umanitarie. l'Onu è un semplice osservatore».
Padre Antonio, alla soglia degli ottanta anni, ha scelto la Toscana per il suo esilio forzato e racconta come un fiume in piena mentre dalla finestra della sua casa nel cuore di Barberino val D'Elsa l'immagine rasserenante delle colline, dei vigneti a perdita d'occhio contrasta fortemente con le immagini di povertà e di sofferenza che lui ci trasmette. Le parole non bastano per raccontare una vita, ma soprattutto è la passione per la sua missione e l'amore per quel popolo che è difficile tradurre in parole. I suoi occhi riescono a raccontare molto di più.
Quindi pensa ancora di tornare in Congo nonostante tutto?
«Certamente, non posso abbandonare quel popolo rischiando che vada perduto tutto quello che in questi anni è stato fatto. L'ex convento delle suore diventato Ospedale destinato alla maternità con infermieri e personale preparato , cinque dispensari distribuiti nella varie tribù, duecento tubercolotici assistiti a domicilio su un territorio di duecentocinquanta chilometri quadrati, 600 lebbrosi a cui ogni giorno abbiamo garantito medicine e assistenza, laboratori di cucito e di falegnameria. Il nostro progetto P.P.E. Projet Pygmees Etabe che deriva dall'originaria missione istituita nella prima metà del novecento dai Piccoli Fratelli di De Foucauld non si può fermare. Il nostro obiettivo è quello di aiutare i Pigmei a sottrarsi allo sfruttamento e al dominio degli altri congolesi e degli stranieri. Per fare questo bisogna lavorare sia sul piano economico che su quello politico sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa e infine sul piano culturale e religioso proteggendo e valorizzando le forme espressive naturali e portando il messaggio evangelico nel rispetto della religiosità monoteistica di quel popolo.
Anche se ormai cammino con il bastone, devo tornare quanto meno per organizzare nelle mani di chi resta la gestione pratica dei servizi, poi dall'Italia seguirò per via telematica garantendo da lontano il sostegno economico di cui hanno bisogno per andare avanti».
Cosa si è portato a casa, in Toscana, delle esperienze vissute in Africa? Quali immagini le sono rimaste nel cuore?
«Prima di tutto gli occhi dei bambini che mi hanno accompagnato in ogni giornata trascorsa nei loro villaggi dandomi coraggio e forza di andare avanti. Il ricordo di quelle notti equatoriali con negli orecchi il crepitio dei grilli e qualche grido di uccelli notturni, un rullio lontano di tamburo e una pace infinita nel cuore. Mi porto dentro il senso di impotenza che mi ha sopraffatto accanto a quei malati di malaria cerebrale, di lebbra, di tubercolosi ...non avevo che parole da dare quando avrei voluto dare tutto, anche quello che non avevo. Ricordo i bouganvilles in fiore rossi, viola con le loro fronde elegantemente vestite di foglioline tenui, il mormorio della foresta e il respiro della savana....non vedo l'ora di tornare».
Antonella Lomonaco
Pubblicato il 2 gennaio 2018