Denuncia materiale pedopornografico sul cellulare del figlio: da Siena partono le indagini che coinvolgono 13 province
«Era necessario bloccare la diffusione progressiva dei partecipanti al gruppo - dicono i Carabinieri -. Un insieme di persone che normalmente non si conoscevano tra di loro ma che condividevano evidentemente l’inconfessabile segreto di provar gusto in maniera più o meno consapevole nell'osservare quelle immagini. Per qualcuno forse si è trattato di una prova di coraggio necessaria per sentirsi più grandi o chissà cos'altro, questo forse ce lo diranno gli psicologi che vorranno interpretare il fenomeno. Nel corso delle perquisizioni sono stati sequestrati decine di telefonini e computer»
La denuncia è partita dalla madre lo scorso gennaio. La donna ha riferito ai Carabinieri di Viale Bracci, a Siena, di aver rinvenuto nello smartphone del figlio 13enne video pedopornografici di una violenza inaudita.
«Quella madre avrebbe potuto come tante altre limitarsi ad ammonire il figlio, ordinargli di uscire per sempre da quel gruppo WhatsApp, “The shoah party” dal nome a dir poco disgustoso oltre che profondamente diseducativo - commentano le autorità -. Avrebbe potuto non rischiare la propria onorabilità entrando a gamba tesa in una vicenda in cui non c’erano onori da raccogliere ma soltanto schizzi di fango diretti in tutte le direzioni, compresa la propria. Ma ha preferito seguire la propria coscienza: chapeau!».
Se non fosse stato per quella denuncia l’indagine non sarebbe partita né a Siena né altrove. Perché un gruppo WhatsApp non conosce confini e quell’espressione degradante di malcostume ha interessato molte regioni d’Italia. Moltissimi ragazzini hanno potuto osservare le immagini di pedopornografia, di enorme violenza, di apologia del nazismo e dell’islamismo che vi erano contenute. I Carabinieri hanno dovuto lavorare attraverso intercettazioni telematiche richieste e ottenute dalla Procura dei Minori di Firenze, sotto il coordinamento del Procuratore Sangermano, e dalla Procura Distrettuale di Firenze competente per materia, grazie ai decreti emessi dal PM Cutrignelli.
Tanti ragazzini dai 13 ai 17 anni sono rimasti invischiati più o meno consapevolmente in questa triste vicenda di pedopornografia. Altri, dopo essere entrati in quello spazio ospitato da WhatsApp, ne sono subito usciti. Ma nessuno risulta aver denunciato la cosa. Dopo la denuncia della donna ci sono stati cinque mesi di indagini molto intense. Autorizzati dai pubblici ministeri, i militari si sono introdotti con l’inganno all’interno del gruppo social, riuscendo a convincere gli amministratori della loro inattendibile affidabilità, con un giochetto da hacker.
Successivamente sono risaliti agli amministratori del gruppo, quelli che lo hanno creato e alimentato, minorenni e maggiorenni, tutti residenti nella zona di Rivoli, le immagini e i video postati sono stati attribuiti singolarmente alla responsabilità di qualcuno, e alla fine ne è venuta fuori una ben documentata informativa di reato che è finita sul tavolo dei magistrati operanti. Questi hanno ritenuto necessario interrompere da subito l’attività delittuosa. I Carabinieri avevano ricostruito tutto. Maggiori elementi potevano emergere solo dalle perquisizioni.
Sono stati così emessi 25 decreti di perquisizione a carico degli indagati, 19 a carico di minorenni e 6 a carico di maggiorenni, eseguiti nella nottata di ieri in 13 province d’Italia. Sui sei 13enni coinvolti non era possibile procedere, essendo non imputabili per la legge italiana.
«Era necessario bloccare la diffusione progressiva dei partecipanti al gruppo - dicono i Carabinieri -. Un insieme di persone che normalmente non si conoscevano tra di loro ma che condividevano evidentemente l’inconfessabile segreto di provar gusto in maniera più o meno consapevole nell’osservare quelle immagini. Per qualcuno forse si è trattato di una prova di coraggio necessaria per sentirsi più grandi o chissà cos’altro, questo forse ce lo diranno gli psicologi che vorranno interpretare il fenomeno. Nel corso delle perquisizioni sono stati sequestrati decine di telefonini e computer. Verranno affidati ad un consulente tecnico d’ufficio che ne farà delle copie forensi, riproduzioni attendibili dei contenuti spesso indescrivibili delle chat, necessarie per la promozione delle accuse in giudizio».
Pubblicato il 16 ottobre 2019