Dipingere per trasformare rabbia e paure. Intervista a Toni Alfano

«Per fare le cose, per scrivere, per dipingere… per me c’è un solo modo: quello dell’onestà. Altrimenti non funziona, non c’è la magia. La voglia di fare un fumetto non deve prescindere la voglia di raccontare qualcosa. Però te che vuoi raccontare? Perché è importante»

 TONI ALFANO
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Ho visto Toni Alfano per la prima volta l’anno scorso, alla presentazione Pompei (Neo edizioni), la sua prima graphic novel, a Poggibonsi, durante “Notizie dai confini”, organizzato dall’associazione La Scintilla in collaborazione con associazione Timbre e Fondazione Elsa. L’ho ritrovato e conosciuto quest’anno al Montemaggio Festival Resistente, l’occasione per parlare un po’ e chiedergli di concedermi un’intervista.

Abita in Val d’Elsa da cinque anni, nel comune di Casole, ma è nato e cresciuto a Milano. Oggi, domenica 14 ottobre, inaugura al Podere Sarina il suo nuovo studio (dalle ore 16.00 alle 21.00). «Io e la mia compagna volevamo andare via dalla Lombardia, che per me è il male assoluto – scherza - Abbiamo passato dieci anni a girare un po’ per il Centro Italia, poi ci siamo innamorati della Toscana, come avremmo potuto fare altrimenti? Abbiamo lasciato casa, dei lavori sicurissimi e siamo venuti qua, dove piano piano stiamo ricostruendo tutto daccapo».

Quando gli domando perché si è approcciato alla pittura, la prima cosa che mi risponde è «Perché ho avuto un’infanzia complicata». «È stata – aggiunge - e continua ad essere un’urgenza per raccontare, per raccontarmi, anche per trasformare la rabbia e la paura. E’ sempre stata una necessità, prima ancora di una possibilità lavorativa. Se non facessi questo sarei un terrorista, o un serial killer o qualcosa del genere».

Lavora come creativo in ambito pubblicitario, dedicandosi parallelamente alla pittura, esponendo in mostre collettive e personali. Nel 2006 si è avvicinato all’Art Brut, influenzato dall’opera dell’artista Jean Dubuffet e dai fenomeni di arte spontanea. Ha lavorato per un periodo in un centro residenziale, costruendo percorsi espressivo-riabilitativi per utenti anziani, con demenza e malattia di Alzheimer, percorsi di stimolazione multi-sensoriale con persone in stato vegetativo e di minima coscienza, e percorsi di musicoterapia in Hospice con malati terminali nell’ambito delle cure palliative. «Mi piace molto il concetto della dualità - spiega -, del rapporto tra razionale e inconscio. E della rinascita che è sempre anche nella distruzione, nella caducità e nella morte. A un certo punto ho voluto davvero calarmi nella sofferenza vera. Sono entrato per applicare lo strumento dell’espressione delle emozioni attraverso l’arte. In realtà sono più le cose che ho imparato di quelle che ho insegnato. L’esperienza con l’Alzheimer è quella che ho utilizzato di più. Se pensiamo che la memoria è quello che ci definisce come persone. Memoria e identità sono unite. In un centro Alzheimer vedi ogni giorno sgretolarsi un pezzetto... Questa cosa mi affascina moltissimo e penso che debba essere raccontata. È un po’ una metafora della condizione di tutti: siamo tutti destinati all’oblio».

La memoria come qualcosa che ci sfugge di mano, che perdiamo via via, si riflette anche nella sua arte. Nei suoi quadri l’elemento distruttivo, che è quello finale, è il più determinante di tutti. «Faccio il mio quadretto - racconta -, coi chiaro scuro, preciso, poi un pochino lo distruggo. Quella distruzione gli dà vita. E’ come se fosse ferito e quello che rimane è la ricchezza. C’è stato un periodo in cui avevo un po’ messo da parte la pittura. Sentivo di non essere tanto tagliato per fare il pr di me stesso, per partecipare agli eventi e per incensarmi da solo. Il centro residenziale mi ha cambiato completamente la vita, da lì io e la mia compagna abbiamo detto basta, ora facciamo solo quello che ci piace. Non è stato facile, ho dovuto come smantellare un po’ il sogno fumoso che mi ero creato. E i soldi, e la sfiducia, la società brutta, l’universo… Adesso io mi sento vero. Sento che se faccio qualcosa la faccio perché deve essere verissima, ed è necessario soprattutto in una società terrificante come quella che viviamo. Dobbiamo provare ad essere autentici in ogni modo, con tutte le forza».

Parliamo di Pompei, edito nel 2014 da Neo edizioni, per cui era già collaboratore e illustratore. «Avevo dieci anni di taccuini. A un certo punto, non so perché, mi sono messo a strappare le pagine e a metterle insieme ed è venuto furi qualcosa. Gliel’ho spedita perché secondo me c’era un’idea, che gli è piaciuta, tanto che mi hanno detto “Lavoraci”. Così ho fatto, ci ho lavorato un anno, ma è come se ne racchiudesse dieci precedenti. E’ un'opera pittorica secondo me, più che un fumetto». In Pompei, a differenza di altre graphic novel che capita di leggere, la parte del testo non è asslutamente sacrificata rispetto a quella illustrata. «Per fare le cose, per scrivere, per dipingere… per me c’è un solo modo: quello dell’onestà. Altrimenti non funziona, non c’è la magia. La voglia di fare un fumetto non deve prescindere la voglia di raccontare qualcosa. Però te che vuoi raccontare? Perché è importante. Il testo è il frutto di notti insonni… Sai, ho questo vizio di scrivermi tutti i sogni, con data e ora. Sono un po’ fissato col sogno lucido. Gli induisti dicono che se riesci a governare i tuoi sogni puoi capire cosa accade dopo la vita. Non mi interessava scrivere una storia, mi interessava scrivere della definizione del sé attraverso un processo creativo, quello che parte dallo scavare dentro di noi stessi».

Alla domanda "Quanto c'è di tuo?", risponde «Molto, ma non volevo personalizzare troppo». «Secondo me - aggiunge - un’opera d'arte diventa tale nel momento in cui quando la si guarda si diventa in qualche modo co-autori: non solo mi ci identifico, ma creo qualcosa di mio. Non mi piacciono le opere di facile lettura, preferisco quelle in cui si deve avere la pazienza e la voglia per capire fino in fondo. Mi piaceva un sacco Fuori orario, hai presente? Stavo sveglio fino all’una di notte per vedermi Enrico Ghezzi che presentava i film. Ho sempre trovato curioso che si doppiasse da solo, c’era come uno scollamento tra i movimenti delle labbra e la voce. Non era un errore, era una sfida, come per dire: chi mi vuole seguire sta attento a quello che dico. Dar voce a tutte le ossessioni, le paure, le angosce. Però mi dicevo che deve essere anche un po’ faticoso per chi legge. Allora chi ha veramente voglia può usare questo strumento e farsi un viaggio suo».

C'è il progetto di un'altra graphic novel in cantiere, la storia di un antieroe, ma non posso anticiparvi di più.

Alessandra Angioletti

Pubblicato il 14 ottobre 2018

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