Immigrazione, la storia di Bobo: dalla vita da clandestino al suo progetto in Senegal
Quello che vedete ritratto nella fotografia in alto, insieme alla sua bella compagna, è Boubacar Diaw, un ragazzone dalla faccia sempre sorridente che si fa chiamare da tutti Bobo. Forse qualcuno di voi l'ha riconosciuto ieri, durante la sfilata del Pigio di Poggibonsi, in testa al Rione di Chiesina, mentre ballava e suonava le sue percussioni. Io l'ho visto per la prima volta circa un anno fa, in occasione di un'iniziativa sull'immigrazione organizzata a Casole d'Elsa, quando raccontò davanti a tutti la sua storia
Oggi è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione. Secondo quanto riportato da ValigiaBlu, sono più di 10mila le persone che dal 2014 sono morte attraversando il Mediterraneo, molti di loro bambini. Si tratta della più grande crisi umanitaria dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Quello che vedete ritratto nella fotografia in alto, insieme alla sua bella compagna, è Boubacar Diaw, un ragazzone dalla faccia sempre sorridente che si fa chiamare da tutti Bobo. Forse qualcuno di voi l'ha riconosciuto ieri, durante la sfilata del Pigio di Poggibonsi, in testa al Rione di Chiesina, mentre ballava e suonava le sue percussioni. Io l'ho visto per la prima volta circa un anno fa, in occasione di un'iniziativa sull'immigrazione organizzata a Casole d'Elsa, quando raccontò davanti a tutti la sua storia.
Bobo è arrivato in Italia alla fine del 2008, ma c'era già stato due anni prima, perché lavorava per una compagnia teatrale di Ravenna che si chiama Teatro delle Albe. «Avevano un progetto in Senegal - dice - che si basava su Terra Turismo e Teatro e io facevo parte del settore del teatro. Grazie a loro ho avuto la possibilità di girare parecchio in Francia e in Italia e di poter fare quello che mi piaceva davvero».
Tre mesi prima della partenza nel 2008, però, Bobo ha perso il padre. E' il più piccolo di sette fratelli, l'unico che la madre ha tenuto con sé quando si è trovata costretta a dare agli zii gli altri figli, perché non era in grado di mantenerli. La sua famiglia gli ha chiesto a quel punto di rimanere in Italia per cercare fortuna e poterla sostenere da lontano e così ha fatto. Era qui con un visto, che però poi è scaduto.
Da clandestino, ha vissuto per un periodo a Colle di Val d'Elsa insieme a sua sorella, ma si è trovato presto a doversi arrangiare da solo, per non gravare su di lei, che già aveva quattro figli. «Vicino al cimitero di Colle c'erano delle case abbandonate - racconta - e io andavo lì a dormire. Erano dei momenti difficili. A volte mi sentivo anche male, ma non potevo andare all'ospedale perché ero senza documenti. Mi sono spostato più volte, quando finalmente sono andato a vivere con degli amici. La casa era piccola, ma almeno avevo un tetto sopra la testa».
Bobo è riuscito anche a trovare un lavoro. «C'era un ristorante di Colle che mi aveva assunto fisso per lavorare a nero - racconta -, ma dopo un mese si sono accorti che non avevo i documenti. Quando sono andato a chiedere i soldi non mi hanno pagato, perché tanto sapevano che non sarei potuto andare a denunciarli. Se sei clandestino non hai nessun diritto sugli altri. Devi accettare quello che gli altri ti fanno senza dire nulla».
Dopo un po' di tempo Bobo ha conosciuto la sua campagna, dalla quale aspetta un bambino. «All'inizio era solo un'amica - dice, ridendo -, poi è diventata qualcosa di più... Quando la cosa si è fatta seria, mi ha presentato alla famiglia. Però nessuno di loro sapeva che ero clandestino. Avevo paura di perderla e di fare una brutta figura, ma dopo due anni ho dovuto dire la verità. Lei nemmeno sapeva cosa fosse un clandestino... Quando poi l'ha scoperto piangeva, era disperata, temeva che mi portassero via».
Passa un mese ed esce la sanatoria per regolarizzare gli immigrati. «L'Associazione Il Telaio di Colle mi ha aiutato molto per preparare i documenti e superare tutti gli ostacoli burocratici che c'erano per ottenere finalmente il permesso di soggiorno e poter avere un lavoro in regola. Ho lavorato fino a qualche giorno fa per un catering, ma si trattava di un contratto estivo e ora sono di nuovo alla ricerca».
Da circa tre anni Bobo ha creato un progetto per sostenere i bambini del paese in cui ha fatto scuola, in Senegal. «Con al mia esperienza voglio aiutare chi non ha nulla e non può difendersi. All'inizio, con gli amici del Telaio, abbiamo chiamato il progetto "Un ponte per Dakar", ma vorrei che il nome fosse Bobo, che significa bambino. Vorrei che i bambini avessero un centro completamente dedicato a loro per poter giocare in tranquillità, perché adesso sono costretti a farlo per strada a rischio della propria incolumità. Vorrei continuare a donare loro i vestiti e il materiale scolastico che sono riuscito a raccogliere grazie alla collaborazione con le associazioni della zona. Abbiamo in mente di fare anche una cena etnica per raccogliere fondi. Il primo fattore per il cambiamento è l'educazione: è imparando di più che possiamo organizzarci meglio e stare meglio».
La storia di Bobo, per quanto segnata da grandi difficoltà e sofferenze, è tutto sommato una storia a lieto fine, una mosca bianca rispetto a quella di tanti altri che per fuggire dalla guerra e dalla povertà nemmeno riescono a raggiungere la meta del proprio viaggio. Una storia che se è andata così è anche per la generosità e l'affetto delle persone che ha incontrato che sono riusciti a guardarlo senza pregiudizi e diffidenza.
Alessandra Angioletti
Pubblicato il 3 ottobre 2016