Il vuoto e il filo delle dipendenze

La pagina bianca che ho di fronte somiglia, in parte, a questi giorni che ci troviamo davanti, in cui il cielo al mattino ci sveglia spesso con un colore etereo, nebbioso, e non sappiamo mai cosa si trova sotto quel velo impalpabile, cosa ci attenderà, quali colori arriveranno nel corso della giornata a farci compagnia

 GIULIA LOTTI
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Così ci convinciamo che la pagina bianca è vuota, così come il cielo, anche perché da troppo tempo di quel manto azzurro che abbiamo sopra la testa, ci è consentito vederne solo una piccola porzione.

E arriva il vuoto, una sensazione che somiglia a una voragine, di dimensioni crescenti, sotto i nostri piedi.

Un vuoto in cui a volte sprofondiamo pigramente, nutrendo un pericoloso disinteresse verso le cose e le persone. Vuoto che gli addetti ai lavori chiamerebbero depressione, vuoto che chi lo prova descrive semplicemente accompagnando la parola “fatica” ad ogni verbo, nome, aggettivo delle frasi che pronuncia.

I vuoti somigliano a tanti barattoli aperti e su di loro ci sono delle etichette con su scritte le cose che abbiamo smarrito: affetto, relazioni, divertimento, sogni, desideri, sorrisi, volontà, coraggio, passione, determinazione, fiducia….e potrei continuare all’infinito a pescare dentro il cassetto della nostalgia, delle cose che sentiamo di aver perduto.

Questo buco, in cui non vediamo nulla, che è per noi assenza di tutto e, al tempo stesso, paura assoluta, tendiamo a riempirlo in tanti modi, di tante cose.

Così arriva la corsa agli acquisti, l’illusione che aprire il frigo e mangiare ci possa dare conforto, la compagnia di un bicchiere di vino di troppo, lo stabilire relazioni per garantirsi affetto e piacere, lo stare sempre connessi, alla finestra del mondo degli altri, in cerca di buone vibrazioni. Arrivano talvolta anche le sostanze stupefacenti, con la loro promessa bugiarda di sospendere il dolore che proviamo, farci sentire pieni e sicuri, anziché vuoti e vacillanti.

Il contenuto con cui riempiamo il barattolo può variare ma non cambia il fatto che a quel contenitore devono aver praticato un foro invisibile, da cui esce tutto quello che ci infiliamo dentro, lasciandoci nuovamente con quella mancanza da cui tutto era partito.

E allora nuovi vestiti da acquistare, un altro viaggio da programmare, qualcosa di dolce da mettere subito sotto ai denti, qualche storia nuova per non sentirsi soli, qualsiasi cosa che anestetizzi per un pò il brivido che sento ogni volta che penso di essere nato con un buco dentro.

Il barattolo vuoto comincia a fare amicizia con il filo delle dipendenze ed è una conoscenza difficile da tagliare perché quando si è “senza qualcosa” è facile credere ai “venditori di felicità”.

Un giorno, però, il barattolo può provare a rispondere al filo, che bussa suadente alla sua porta, che ha da fare.

Il filo di certo chiederà se lui si sia, nel frattempo, riempito di qualcosa d’altro, insomma immagino che dirà: “Sei finalmente, pieno, soddisfatto, realizzato?”.

Il barattolo replicherà: “No, sono sempre mezzo vuoto, pieno di spifferi e di toppe malmesse. Ma questo lo so già, sono giorni, mesi, anni che mi guardo dentro, conosco ogni mia assenza, ogni microscopico foro delle mie perdite".

Il barattolo, a quel punto, proseguirà comunicando di aver preso finalmente una decisione:

"Ho deciso di guardarmi intorno, oltre il mio vuoto. Ci sono dei pieni vicino alle mie mancanze, delle presenze che ho deciso di osservare. Per questo per oggi passo, caro filo da cui dipendo tanto, ci vediamo domani, ora non ho tempo per te".

Il vuoto, dunque, cambia il suo orizzonte, lasciando la sua prospettiva miope in cui non vede oltre un metro da sé per provare ad allargare il proprio campo visivo.

Insomma oltre a quel buco, che conosco, detesto e da cui sono forse anche tanto attratto, cosa c’è? Su cosa posso invece contare, che sta lì e mi dà fiducia?

E se smettessi di dedicare tutto il mio giorno, e le mie energie, al riempimento di quel vuoto, a cosa di bello e creativo mi potrei  invece avvicinare?

Perché se una cosa è certa è che i pensieri sono animali insaziabili e se non sappiamo dire “basta “alla loro fame di attenzione e risorse, loro ci fagociteranno.

Invece, mentre sono intento a fare, costruire qualcosa di bello, che sia un disegno, una canzone, un maglione di lana, un lavoretto di bricolage, sposto la mia attenzione dal vuoto ad una sensazione di pienezza e concentrazione.

E ancora, se smettessi di vivere nell’illusoria speranza che, quando avrò sconfitto il vuoto, tornerò a vivere pienamente, cosa potrei fare delle mie giornate?

Potrei, intanto, accettare di vivere “con il vuoto” invece che rimandare di vivere a quando “mi sarò liberato del vuoto”.

Potrei camminare con il vuoto in tasca, come quando, nelle giornate di freddo, si mettono le mani nel cappotto per scaldarsi e rimaniamo un pò delusi nel sentire, in fondo alle pieghe del tessuto, quel buchino fastidioso da cui entra aria e che ci siamo scordati di riparare al cambio di stagione precedente.

Ma non si torna a casa, si continua a camminare, stringendo a pugno le mani dentro la tasca per scaldare le dita.

Si osserva un passante, si sbircia dalla finestra di quella casa illuminata, si sentono voci della vita che scorre intorno a noi, ci viene in mente quella cosa lasciata a metà in garage e ci torna la voglia di completarla, ci risuona una canzone che ci dà conforto, ci fa sorridere il ricordo di un messaggio ricevuto.

Ci troviamo così di là dalla strada, con tanti passi fatti e un buco in una tasca e qualche buona idea nell’altra. Le mani soppesano le due parti, toccano il vuoto e la presenza e sentono che si può procedere, in equilibrio tra queste due diverse sensazioni.

Leggeri come il vuoto, solidi come un cappotto caldo dentro cui puoi affondare le mani quando c’è freddo intorno.

Tornando a questa pagina, che nel frattempo non è più bianca, anche poco fa vedevo solo il bianco, la sua assenza di colore, di tratto, di segno impresso, il nulla, insomma.

E adesso ci sono, tra un vuoto bianco e l’altro, pensieri, riflessioni, propositi, condivisioni, immagini trasposte in parole.

Questo mi ricorda le lezioni di educazione artistica delle medie e la consapevolezza che il bianco (così come il vuoto) non è assenza di colore ma li comprende tutti, è l’attimo prima che le cose prendano forma, è il respiro che ci concediamo per buttarci poi nelle cose, prima di abbracciare un progetto, un altro essere umano, un’idea e, finalmente, noi stessi.

Giulia Lotti - Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, dove vivo con la mia famiglia. Mamma di Stella e Pietro, rispettivamente di 5 e 9 anni. Svolgo sul territorio l’attività di psicoterapeuta, lavorando sia in libera professione, alla Pubblica Assistenza di Poggibonsi, che presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. La mia passione per le storie di vita nasce fin da bambina, quando chiedevo a mia nonna di leggermi fiabe e racconti i cui protagonisti erano persone impegnate nelle varie tappe del vivere quotidiano, che amavano, soffrivano e, a loro modo, provavano a disegnare i confini entro i quali esistere. Con il tempo, ho coltivato l’amore per la lettura e per la scrittura introspettiva, scegliendo poi un lavoro attraverso cui le storie e i protagonisti dei racconti di vita trovassero uno spazio, quello della terapia, appunto, dove potersi fermare, raccontarsi e raccogliere l’entusiasmo necessario per riprendere il viaggio. La rubrica “Una stanza tutta per sé” vuole essere un’occasione per riflettere, condividere storie, tessere un filo comunicativo tra le persone. Una stanza per noi ma con finestre comunicanti, da cui poter parlare, ascoltare, entrare in sintonia con noi stessi e con gli altri

 

 

 

 

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Pubblicato il 16 gennaio 2021

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