Intervista a Giuseppe Gulotta, in carcere da innocente per 22 anni

Giuseppe è stato implicato suo malgrado in una vicenda assai grave che ha coinvolto diverse forze. Ha scontato, da innocente, 22 anni di reclusione nella Casa Circondariale di Ranza a San Gimignano, dal 1990 al 2012. La triste vicenda è nata nei primi giorni del gennaio 1976, nel momento in cui viene arrestato con l'accusa di aver ucciso due giovani carabinieri

 GIUSEPPE GULOTTA
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Un pomeriggio di primo autunno siamo state accolte a casa di Giuseppe Gulotta a Certaldo, in compagnia di sua moglie Michela, per farci raccontare la sua storia.

Giuseppe è stato implicato suo malgrado in una vicenda assai grave che ha coinvolto diverse forze. Ha scontato, da innocente, 22 anni di reclusione nella Casa Circondariale di Ranza a San Gimignano, dal 1990 al 2012. La triste vicenda è nata nei primi giorni del gennaio 1976, nel momento in cui viene arrestato con l'accusa di aver ucciso due giovani carabinieri. Trascorre due anni e tre mesi in prigione in Sicilia, per poi trasferirsi a Certaldo, dove erano presenti alcuni parenti, e riesce ad ottenere la libertà vigilata. È nella cittadina valdelsana che conosce sua moglie Michela, dalla cui unione nasce loro figlio. Dopodiché Giuseppe riceve una grande batosta: è il 1990 quando viene condannato all’ergastolo, scontato interamente a San Gimignano. Nel corso degli anni vengono fatti vari ricorsi, fino a quando nel 2012 arriva la notizia tanto attesa: viene dichiarato innocente per non aver commesso il reato.

Dalla sua storia, sono nate una fondazione, un libro e uno spettacolo teatrale intitolato Come un granello di sabbia, che avrà luogo il 22 novembre al teatro Boccaccia di Certaldo.

«Io avevo a malapena 18 anni quando è iniziata questa storia – dice -. Era il gennaio del 1976 e a quel tempo lavoravo come muratore in Sicilia. All’epoca il mio sogno era quello di entrare a far parte della Guardia di Finanza, avevo già fatto domanda, ma alla fine non è andata proprio così. Sono stato accusato insieme ad altri ragazzi miei coetanei di aver ucciso due giovani carabinieri della caserma di Alcamo Marina, con i quali non avevamo avuto nessun tipo di contatto».

Ad oggi l’intera faccenda rimane ancora oscura e irrisolta, poiché non sono stati individuati gli esecutori materiali degli omicidi, né tantomeno le persone che hanno organizzato l’intero operato.

La vicenda è stata infangata dall’inizio, dal momento in cui i carabinieri hanno falsificato il verbale di arresto di Giuseppe. «Durante quella notte – ci racconta - sono stato costretto a firmare il verbale e a dichiararmi colpevole. Dico costretto perché mi hanno torturato e durante i processi non hanno tenuto conto di questo. La mattina dell’arresto erano ancora presenti tutti i lividi delle torture, ma come giustificazione i carabinieri hanno detto e sottoscritto sul verbale che, non ridete, sarei scivolato su una buccia di banana. Questo non è interessato a nessuno, nonostante dicessi che avessi la bocca rotta, i capelli che mi cascavano a ciocche e affermassi di aver subito più scosse elettriche ai testicoli».

I carabinieri hanno dunque “sbagliato” la data del verbale di ben sette ore, dichiarando di averlo portato in carcere la mattina seguente rispetto a quando era realmente accaduto.

«Possiamo dire – aggiunge Giuseppe - che non siamo stati vittime di un errore giudiziario, ma di una frode processuale, cioè prove fabbricate per incolparci. Dovevano trovare un gruppetto di amici e hanno incolpato noi poiché per compiere l’azione serviva proprio una squadra di almeno quattro persone. Quindi hanno incastrato me, Mandalà, Ferrantelli, Santangelo e il Vesco. Quest’ultimo è stato il primo ad essere preso, torturato e poi costretto a fare i nostri nomi».

Nel primo processo, come è scritto anche nel libro tratto dalla sua storia Alkamar, il pm Francesco Garofalo ha ricostruito verosimilmente i fatti, spiegando le varie modalità con cui secondo lui sarebbero stati commessi gli omicidi. I processi sono andati avanti fino alla condanna.

«Siamo stati incolpati senza prove reali – spiega -, ma con quelle create e trovate a modo loro. Uno dei miei compagni, Giovanni Mandalà, era stato condannato già in primo grado, perché a casa sua era stata trovata una giacca con delle macchie di sangue sopra. Solo dopo 36 anni si è scoperto che quelle macchie erano state messe dai carabinieri stessi e questa per la giustizia era la prova della sua colpevolezza. La giacca, durante i vari processi, compariva e scompariva, mentre ad oggi non esiste più, perché è stato dimostrato che le macchie presenti erano a goccia e non a schizzo, quindi per forza aggiunte da qualcuno per falsificare le prove. Si è scoperto poi che il gruppo sanguigno del sangue sulla giacca appartenente al carabiniere era casualmente compatibile con quello di Mandalà, e si tratta di un gruppo assai raro».

Giuseppe mentre ci racconta la sua incredibile storia ha gli occhi impregnati di lacrime, la tristezza gli si legge in faccia. Nonostante tutto però è rimasto un uomo forte e soprattutto ha tanta voglia di vivere e di rifarsi una vita, magari quella che sognava. Ascoltare la sua storia non è stato semplice. Non è facile provare ad immaginare cosa abbia davvero provato in quelle circostanze. Sono storie che ci sembrano lontane anni luce, che siamo abituati a vedere nei film, non ci sembra possibile che una cosa del genere possa accadere a persone a noi vicine.

«Quando mi hanno chiesto cosa avessi fatto la sera degli omicidi, il mio alibi è stato che quella sera mi trovavo a casa a guardare un film, ed era facile da ricordare perché all’epoca esistevano solo due canali, Rai 1 e Rai 2, quindi ho risposto che ero a casa a vedere la televisione e poi sono andato a letto.

Io penso, anche se non sono l’unico, che i due carabinieri non siano stati ammazzati lì dove sono stati trovati, ma portati in quel luogo per creare la messa in scena. Si pensa che i due siano stati uccisi perché avevano fermato un furgone bianco carico di armi, cosa che non dovevano vedere, anche perché i fogli del fermo non sono mai stati ritrovati. Tra le varie cose insolite c’è anche il fatto che nel momento in cui mi hanno condannato alla pena definitiva dell’ergastolo, non mi hanno arrestato subito come si fa in questi casi e nemmeno il giorno seguente, ma circa 70 giorni dopo, come se volessero darmi il tempo per farmi scappare. Noi siamo stati dei capri espiatori».

I carabinieri che quella notte vi hanno incastrato, ad oggi dove sono?
«Allora, durante il processo di revisione, uno già non c’era più.
Gli altri nel 2008 vengono convocati dal tribunale di Trapani, perché un giornalista aveva creato delle battaglie giornalistiche su Alcamo e allora il giudice a questo punto voleva vederci chiaro sulla faccenda. I carabinieri convocati, prima di recarsi a testimoniare, sono stati intercettati mentre cercavano di mettersi d’accordo su cosa dire di preciso, concordando di non ricordare. Il giudice in questione c’aveva visto giusto e infatti aveva fatto mettere i loro telefoni sotto controllo. Andrea Toronto, il giudice, era sicuro della mia innocenza e della loro colpevolezza, ma siccome erano passati 30 anni ed il reato era già andato in prescrizione non ha potuto fare altro.
Successivamente uno di questi carabinieri è morto, mentre degli altri due non so più niente».

Come ti sei sentito appena ti hanno dichiarato innocente?
«È stata un’emozione forte. Devo anche ringraziare un testimone, che è un ex carabiniere, Renato Olino, che ha fatto scoppiare il caso di nuovo, raccontando quanto accaduto quella notte. Sette mesi dopo il mio arresto, sono venuto a sapere che si era dimesso perché i metodi da lui visti quella notte non gli appartenevano».

Tornassi indietro, c’è qualcosa che cambieresti?
«Prima del primo arresto non te lo saprei dire perché la mia vita sarebbe stata diversa. Non ti posso rispondere. Forse sarei diventato un finanziere. Sarei stato un bravo finanziere?».

Come è stata la tua situazione in carcere?
«In carcere dovevi stare attento, se stavi per fatti tuoi nessuno ti dava fastidio. Agli altri detenuti non importava se eri colpevole o innocente, ma per loro avevo alle spalle un reato importante. Venivo apprezzato in maniera positiva per questo. Io andavo d’accordo con tutti e non facevo l’ora d’aria. Avevo la possibilità di stare da solo e preferivo così.  Passavo il tempo a guardare la televisione e a fare tanti cruciverba nella mia stanza, perché per me quella era la mia “stanza” e non una cella. Ho scontato la mia intera pena sempre nello stesso carcere, a San Gimignano. Ho avuto un buon rapporto con gli agenti della polizia penitenziaria e con alcuni di loro intrattengo ancora delle relazioni».

Di cosa hai avuto più paura?
«All’inizio ho avuto paura delle “mazzate” dei carabinieri, che durante la notte entravano in stanza così senza motivo e iniziavano a dartele».

Come sono stati in questi anni i tuoi rapporti con la famiglia?
«Ho avuto sempre al mio fianco mia moglie Michela, insieme ai nostri figli. Mia moglie non gli ha mai nascosto niente a riguardo, anche se ad un certo punto della sua infanzia il bambino ha creduto di non avere un padre. Un giorno però, avendo ottenuto un permesso, sono riuscito ad andare a trovarlo a scuola. Appena entrato, è corso subito ad abbracciarmi, quando ad una certo punto si è voltato verso i suoi compagni come per dire “vedete che anche io ho un padre!”. Quel gesto mi ha commosso tanto».

Sappiamo che hai scritto un libro e creato una fondazione… 
«La fondazione istituita a nome mio “Giuseppe Gulotta Onlus” non è una forma di beneficenza, ma si basa su una situazione giudiziaria e ha sede qui a Certaldo. Il libro invece, intitolato Alkamar, è stato scritto insieme al giornalista Nicola Biondo e parla di tutta la mia storia».

Cosa hai pensato di fare appena ha ricevuto il risarcimento?
«Innanzitutto ho cercato di sistemare la mia famiglia, ad esempio mio figlio Carlo ha aperto un ristorante a Poggibonsi, nel quale lavorano alcuni ragazzi disabili. Adesso viviamo tranquillamente e in piena libertà. Come sfizio personale, mi sono anche comprato una Porsche, ma a rate! (ride)».

Giuseppe conclude la nostra intervista dichiarando di esser stato «una vittima: dello Stato, della mafia, dei servizi segreti e organizzazioni paramiliari. Ho tanto rabbia, ma ho imparato a contenerla».

Mary Piccirillo
Rosaria Orlando

Pubblicato il 16 ottobre 2017

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