Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare
In questi giorni d’estate, di valigie preparate con forse meno leggerezza del solito, o lasciate invece nell’armadio, per mille e più ragioni che questo anno così disincantato porta con sé, mi trovo a pensare al viaggiare
Nella stanza di terapia sono passati itinerari diversi: c’è chi parte per rincontrarsi, o per vedere finalmente persone nuove, chi per lasciare un attimo in sospeso un tempo pesante, fatto di limiti e divieti, chi per progettare nuove cose, più o meno piacevoli, accadute finora. Chi proprio non parte, felice di restare, chi un giorno prepara un bagaglio leggero e un altro sente, invece che quel peso fa proprio fatica a lasciarlo lì, in un angolo, insieme a tutte quelle cose che il sole non riesce purtroppo ad abbagliare.
Mi passano davanti tanti volti, occhi che sono, per loro stessa natura, un vero e proprio viaggio.
Penso al cammino di ciascuno e al fatto che chi mi si siede davanti spesso è accomunato dall’aver perso il senso e il profumo del proprio viaggiare. Sembra scontato conoscere la propria strada, ciò per cui siamo fatti e chiamati ma, in realtà, le trame che si intersecano nell’ora di terapia raccontano di quanto sia facile perdere la connessione con noi stessi. Quando, ancora piccoli, ci affacciamo al mondo, nasciamo con un bagaglio di talenti, inclinazioni, emozioni, gusti e desideri.
Questo bagaglio, però, incontra prestissimo aspettative altrui, frasi ripetute che possono cambiare profondamente la rotta delle nostre esplorazioni, la capacità di percepirci in grado di mantenere una bussola interiore che ci orienta malgrado il vento e le onde dei consigli non richiesti, dei condizionamenti, dei sogni di chi ci ha messo al mondo pensando che, per essere realizzati, sarebbe stato bello non disattendere troppo le previsioni.
Così, incontriamo chi ci dice cosa è giusto mangiare, quali abiti sia il caso di indossare, il limite entro il quale è opportuno manifestare affari scomodi come tristezze, rabbie e malcontenti.
“Un maschio non deve piangere”, si sarà certamente sentito dire quel bambino; “Non è possibile che non ti piaccia giocare con le bambole”, si è sentita asserire la bambina”.
“ Non essere triste, non puoi sempre prendertela così, non sei adatta per quella scuola, per quel compagno/a, sei grande per piangere così, quel lavoro non fa per te”, ci siamo, prima o dopo, sentiti tutti dire.
Frasi apparentemente innocue che si rivelano a volte in tutto il loro potere, finendo per riuscire a spostare sempre più lontano da noi la nostra imbarcazione, conducendoci talvolta al largo, altre alla deriva, senza ancore a cui sostenerci.
Credo che la misura dello smarrimento e della frustrazione che ciò comporta non siano date tanto dal fatto di viaggiare su un’imbarcazione di fortuna o una nave da crociera, quanto dalla possibilità di sentire che il timone è lì tra le nostre mani e che il paesaggio che possiamo scorgere sia davvero quello che abbiamo disegnato quando ancora il nostro sguardo sulle cose era libero e il sole era giallo, con gli occhi e la bocca all’interno del cerchio imperfetto che, con fierezza, tratteggiavamo sul foglio.
A volte è bello, è utile, è addirittura salvifico, poter prendere di nuovo in mano quel foglio, coltivando la speranza e la fiducia che da una pagina bianca si possano ancora scorgere intenzioni e possibilità.
Quale viaggio mi trovo a fare? Quanto si discosta dai colori, gli odori, i progetti, i desideri che abitavano in me, prima che partisse la cantilena dei “dovresti fare, dovresti provare, così mi deludi, così non andrai da nessuna parte”.
Nel mio studio ho appeso un filo, dove si lasciano ad asciugare i sogni, le paure, le promesse fatte a noi stessi che diventano, così, anche intenzioni dette al mondo. C’è anche una pianta che mi porto dietro dal trasloco dallo studio precedente. L’ho posizionata in alto, sopra l’armadio (un pò come si fa con le valigie), perché la raggiungano la luce ma anche l’ombra dei pini che si stagliano imponenti padroneggiando la visuale dalla finestra. E sta lì perché, al tempo stesso, su di lei si possano, almeno ogni tanto, posare curiosi e benevoli anche gli occhi di chi passa.
E ogni foglia è una promessa, un’intenzione e un desiderio di vita, ogni radice un ricordo di ciò per cui, dal primo giorno, vale la pena viaggiare, ognuno con il suo passo e con la propria rotta.
Giulia Lotti - Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, dove vivo con la mia famiglia. Mamma di Stella e Pietro, rispettivamente di 5 e 9 anni. Svolgo sul territorio l’attività di psicoterapeuta, lavorando sia in libera professione, alla Pubblica Assistenza di Poggibonsi, che presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. La mia passione per le storie di vita nasce fin da bambina, quando chiedevo a mia nonna di leggermi fiabe e racconti i cui protagonisti erano persone impegnate nelle varie tappe del vivere quotidiano, che amavano, soffrivano e, a loro modo, provavano a disegnare i confini entro i quali esistere. Con il tempo, ho coltivato l’amore per la lettura e per la scrittura introspettiva, scegliendo poi un lavoro attraverso cui le storie e i protagonisti dei racconti di vita trovassero uno spazio, quello della terapia, appunto, dove potersi fermare, raccontarsi e raccogliere l’entusiasmo necessario per riprendere il viaggio. La rubrica “Una stanza tutta per sé” vuole essere un’occasione per riflettere, condividere storie, tessere un filo comunicativo tra le persone. Una stanza per noi ma con finestre comunicanti, da cui poter parlare, ascoltare, entrare in sintonia con noi stessi e con gli altri.
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Pubblicato il 12 luglio 2020