Poggibonsi, anno 1726: in prigione per un castagnaccio

Siamo a Staggia, un giorno dei primi del marzo 1726. Tale Antonio Mezzedimi, per far quadrare un po’ il bilancio familiare, si è messo a sfornare castagnacci e li va a vendere su di un trespolo per il paese

 FRANCO BURRESI
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Il castagnaccio è un piatto “povero”, tipico delle montagne e colline toscane, ricche di castagneti. Si fa con la farina di castagne, olio di oliva, pinoli, uvetta, rosmarino, poi possono aggiungersi, a scelta e a seconda dei luoghi, altri ingredienti meno fondamentali. Oggi non è tanto povero, visto che la farina di castagne è abbastanza ricercata e costosa, ma lo era sicuramente quando  le castagne e i loro derivati costituivano una delle basi dell’alimentazione di contadini e montanari.

Al castagnaccio sono particolarmente affezionato, sia per motivi di gusto, sia perché legato a ricordi familiari. Mio padre negli anni anteguerra gestiva infatti un forno a Poggibonsi, in via Gallurì, e di sera, spesso, nella stagione invernale, si recava con un piccolo banchino nella piazza del Comune, attuale piazza Cavour,  a vendere il castagnaccio ai passanti. Diversi anni fa, sul giornale La Repubblica, al tempo della direzione di Scalfari, mi capitò di  leggere un ricordo di un poggibonsese trasferitosi in una città del nord che accennava con nostalgia al famoso e prelibato castagnaccio di “Tavio” (Ottavio Burresi, appunto, mio padre).

Mi è tornato in mente il castagnaccio perché tra i tanti documenti reperiti nei vari archivi  visitati in funzione di un mio prossimo libro sul settecento poggibonsese, mi è capitato di imbattermi in una vicenda giudiziaria che ha per oggetto, appunto, il castagnaccio.

Siamo a Staggia, un giorno dei primi del marzo 1726. Tale Antonio Mezzedimi, per far quadrare un po’ il bilancio familiare, si è messo a sfornare castagnacci e li va a vendere su di un trespolo per il paese. Ragazzi e massaie si alternano al banchino a chiedere una o più fette di tale delizia, quando dietro di loro spuntano le facce arcigne di alcuni “famigli”, le guardie di allora, che sequestrano la merce, spiegano al Mezzedimi che è in arresto e lo invitano a seguirli, pena cattura. Il povero venditore li segue senza opporsi, incredulo, senza capacitarsi del motivo del suo arresto. Si ritrova dopo poco tempo a Poggibonsi, sbattuto in una cella “segreta” della prigione locale. Viene a sapere, il giorno dopo, che contro di lui è stata avanzata una denuncia da parte di certo Francesco Friani, proventuario del cosiddetto “pan venale”, del pane, cioè, che veniva sfornato a prezzo calmierato e controllato dalle autorità comunali, a tutela dei più poveri, il quale pretendeva  di avere anche il monopolio, a Staggia, sulla vendita del castagnaccio. Il Mezzedimi deve pagare 7 lire per la “cattura”, che in realtà è consistita in un semplice accompagnamento al carcere, 12 per il processo, più le “spese di chiavi” e di “approvazioni varie”. Un abuso, oltretutto, visto che per la cattura in un luogo provvisto di jusdicente come era la Potesteria di Poggibonsi, l’importo doveva essere di sole 4.25 lire.

Meno male che a Firenze qualcuno, all’Ufficio delle Farine, informato del fatto, si prende la briga di andare a controllare i contratti di appalto e scopre che il Friani non ha, tra gli altri, l’appalto e l’esclusiva per le “farine dolci”, ragione per cui il Mezzedimi viene subito scarcerato e risarcito quindi di tutte le spese da parte del querelante, tranne però del fatto di aver passato del tempo in gattabuia per il suo castagnaccio, che dalla fine di marzo può tornare a vendere senza timore per le strade di Staggia per la gioia dei passanti.


Franco Burresi

Nelle immagini: un castagnaccio; Ottavio Burresi nella sua bottega di via Maestra cui si dedicò dopo aver cessato l’attività di fornaio (primi anni ’50).

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Pubblicato il 10 aprile 2022

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