Poggibonsi e le sue donne: una signorina, la guerra e un pianoforte
''Ascolta - disse toccando alcune note - questo è l’accordo finale che hai suonato prima, è come il suo addio, di lui che si sta allontanando da me''
Settembre 1918: la guerra, o meglio, la “grande guerra”, come verrà poi definita, stava volgendo al termine.
In Italia si cominciava ormai a parlare di vittoria, vittoria che sarebbe arrivata dopo l’ultima decisiva battaglia di Vittorio Veneto. Ma, come accade sempre, per la gente comune, per il popolo, la vittoria in una guerra non è mai una vittoria. La guerra, per la gente, è sempre e comunque una sconfitta. E così fu infatti per chi poi tornò e non trovò lavoro, per chi dovette ricominciare da capo ad inventarsi un futuro. Fu così per le tante donne rimaste vedove, o con i mariti invalidi, per le ragazze che sognavano un futuro, avevano già preparato il corredo, e a cui le trincee portarono via i loro fidanzati, e i loro sogni, per sempre. Le donne fecero anche loro la propria guerra, sobbarcandosi a casa il mantenimento della famiglia, la cura dei figli, lavorando fino a notte fonda per confezionare calze di lana, berretti o scaldaranci da mandare al fronte. Trepidarono in attesa di una cartolina postale, una lettera, un segno che dicesse loro che il proprio fidanzato, il proprio marito, era ancora vivo. Affrontarono con l’angoscia interiore il silenzio di mesi. E spesso, al silenzio, seguì poi la tragica notizia che mai avrebbero voluto sentire.
La storia che segue racconta di una ragazza di Poggibonsi, Sidonia Manetti, figlia del gestore di un albergo posto vicino alla stazione ferroviaria, che ha perso il fidanzato, e che incontra una sera, nel salone di ingresso, un viaggiatore. Anche a lui la guerra ha portato via qualcosa, i due amici più cari. E tra i due si instaura un rapporto di comunanza di sentimenti, in cui la musica, attraverso le note melanconiche di un pianoforte, esprime tutta la tristezza per gli affetti perduti e nello stesso tempo la voglia di guardare ancora in faccia la vita.
Il brano è tratto dal racconto di A. Tserstevens “Elégìes sur la mort de trois guerriers” (Elegia sulla morte di tre soldati), apparso sulla rivista francese “La revue hebdomandaire” - Parigi, 21 settembre 1918.
“…Un gran desiderio di sognare, di torpore, di oblio mi fece rinunciare a raggiungere Firenze quella sera, così in questo paese malinconico di Poggibonsi, dove la vita si anima e si addormenta al ritmo dei treni di passaggio, scoprii vicino alla stazione un albergo deserto, con un vestibolo introdotto da un arco ogivale, pieno di un odore di vecchi mobili e antichi arazzi. L’albergatore mi portò nella mia stanza: era gelida e oscura; era quella per i viaggiatori in transito, che si svegliano all’alba e si vestono di fretta senza guardarsi attorno. Il salone era vasto e cerimonioso, pavimentato con un mosaico arabesco. Al centro stava un grande pianoforte viennese, con i tasti in avorio giallo, che, sotto la pressione meccanica delle mie dita, emise un suono lontano, flebile, tenero e tremolante come quello di una spinetta. All’esecuzione di una canzone di Sperendio che stava sopra il leggìo, entrò una giovane donna nella stanza, che mi fece cenno di riprendere la melodia interrotta e tendendo verso la musica il suo sguardo interessato, seguì la sequenza di note. Quando l’ultima nota vibrò sulle corde, lei seguì la dispersione lenta del suono come si segue con lo sguardo una persona cara che sta partendo.
- Mia figlia Sidonia Manetti - mi presentò così la ragazza l’albergatore.
Lei era proprio accanto a me, alta, in posa maestosa ma semplice, quasi priva di fianchi, conventuale, dorso modesto e giovani spalle coperte da un tessuto spigato nero, collo bianco e flessuoso, corporatura forte ma delicata. Gli occhi sottili e allungati sotto le palpebre umide si accesero di una morbida luce, all’ombra di una fronte appassionata; c’era una strana delizia su quelle pallide labbra e nel suo volto meditativo il riflesso di una luce interiore, di un intimo misticismo, come una figura contrita dalla fede o da un’orgogliosa e volontaria schiavitù. Doveva provare ogni giorno la spiritualità della musica. Non dicemmo niente; eravamo in piedi uno davanti all’altra e la mia tristezza, con silenziosa effusione, stava invadendo il suo splendore. Mise una mano sulla tastiera e disse:
- Mi piace molto Sperendio, io canto spesso le sue canzoni. Mi piacerebbe che tu mi accompagnassi
- Sì, posso - risposi
- Se dici di potere, vuol dire che rimani molto a Poggibonsi?
- Sono andato a trovare un amico alla caserma di S.Gimignano. Era scomparso…
- Sì - disse la giovane donna, e le sue dita tremavano sui tasti d’avorio - spesso li vediamo andare per il fronte. Il tuo amico deve essere partito…
- Era scomparso - ho ripetuto - mi è stato detto che è morto.
Mi guardò dritto in faccia, con i suoi occhi spalancati, poi le sue palpebre tremarono e le sue guance divennero straordinariamente pallide. Mi disse:
- Noi non lo sappiamo
- Ne sono sicuro - risposi
- Hai sofferto molto… - disse con una voce triste
- Ho sofferto molto, è il terzo di quelli a cui ho voluto bene. Altri due sono morti, mesi fa… Ho trovato la mia forza strada facendo, perché non ero troppo capace di sopportare il dolore. Ho troppo bisogno di vivere… ho paura a stare da solo.
Lasciò cadere le mani, come appassita e si piegò come in lutto
- Non siamo mai soli…
- Anche tu sei sola? - sussurrai. Lei annuì
- Anche lui è morto?
Lei non rispose. Il crepuscolo si propagava agli angoli della stanza e l’ombra, come cenere piovigginosa, incombeva attorno a noi. La tastiera ci separava. Vidi il suo bianco volto di donna rianimato da una chiara serenità interiore. Lei ed io eravamo faccia a faccia, come vecchi amici che si ritrovano dopo anni di assenza e si guardano ascoltando i loro cuori.
- Ho trovato - disse infine - nella mia tristezza una nuova felicità.
Più che in tutti i libri dei filosofi, che parlano della morte, dell’uguaglianza di fronte alla morte, dello stoicismo, trovai istintivamente anch’io la felicità nelle parole di Sidonia Manetti.
- Gli piaceva la musica - disse - almeno mi sembrava, non so altro di lui. Quando suono i pezzi che preferiva ricordo la sua gentilezza, la sua bellezza, la sua tenerezza, persino la sua allegria e sono felice per il ricordo delle sue parole. Immagino cosa desiderava, quali erano i suoi sogni e cosa avrebbe fatto per realizzarli. La sua voce, che sento attraverso la melodia, non ha più il suono che aveva una volta; è ora una musica deliziosa più delle altre, che si mescola alle altre in un dolce concerto. Anche il nostro amore - aggiunse con un caldo accento - mi sembra di rivivere nell’armonia dei suoni; quando recito le poesie che amava provo un religioso sconforto.
- Ascolta - disse toccando alcune note - questo è l’accordo finale che hai suonato prima, è come il suo addio, di lui che si sta allontanando da me.
Queste frasi profonde mi risvegliarono da un momento di ubriachezza. Quindi, pensai, qualcosa di immortale bellezza potrebbe farmi sentire vicino a voi, o miei cari amici! Ed ebbi la sensazione di sentire George leggermi di nuovo la parabola delle vergini e delle lampade, e Tommaso dalle possenti braccia scolpire la pietra con il suo scalpello, e infine Pascal appoggiare la sua mano sulla mia testa come quel giorno in cui ero febbricitante e porse alle mie aride labbra una tazza di acqua fresca…”.
Nota dell'autore Franco Burresi: "Resta da considerare, e l’abbiamo scritta io e Mauro nei nostri libri, tra le righe, la storia ugualmente importante, e a volte ugualmente gloriosa, di tutte le donne, anonime, che hanno contribuito con il loro lavoro quotidiano, spesso duplice, e spesso faticoso come quello degli uomini, alla vita del nostro paese: contadine, impagliatrici, materassaie, maestre, lavandaie, erbivendole, spigolatrici, levatrici, ricamatrici, sarte e via dicendo. Di loro, più che delle eroine, dovrebbero parlare i libri di storia, perché la storia non la fanno solo i generali o i grandi condottieri, che possono, certo, condizionare certi momenti storici, ma anche e soprattutto chi si guadagna il pane, ogni giorno, nel silenzio, con il duro lavoro quotidiano".
Franco Burresi
Immagini: calendario postale del 1918 stampato per le Poste Italiane dalla Tipografia Cappelli di Poggibonsi.
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Pubblicato il 24 aprile 2021