Poggibonsi, i fiorentini, le pesche (e i fichi)

La morte improvvisa a Buonconvento dell’imperatore Enrico VII segnò per Poggibonsi la fine delle aspirazioni di indipendenza e di resurrezione della propria fierezza ghibellina

 FRANCO BURRESI
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La morte improvvisa a Buonconvento dell’imperatore Enrico VII segnò per Poggibonsi la fine delle aspirazioni di indipendenza e di resurrezione della propria fierezza ghibellina. Da allora, dal 1313 cioè, Poggibonsi fu sottomessa definitivamente a Firenze e ai suoi tributi, come altri paesi del contado fiorentino.

Ma ad un tributo ulteriore, tutto particolare, fu sottoposta Poggibonsi, e cioè a quello di spedire ogni anno a Firenze, il 20 di agosto, per la festa di S.Bernardo, un considerevole carico di pesche. Le colline poggibonsesi producevano della buona frutta infatti, che stuzzicava a quanto pare il palato delle autorità fiorentine.

Le pesche in particolare piacevano così tanto che nell’anno 1319, ci racconta il Cantini,  poiché, per qualche ignoto motivo, i poggibonsesi non furono puntuali nel recapitare il solito carico, giunse al Comune di Poggibonsi una curiosa lettera da parte dei Priori delle Arti e del Gonfaloniere di Giustizia di Firenze nella quale questi reclamavano con insistenza la consegna delle pesche, memori della “soavità, dell’odore, del sapore e della bellezza” delle stesse.

Il Doni e il Papini ci raccontano invece un altro aneddoto divertente: un anno, o per il fatto che non ci fossero pesche, o perché  credevano di farsi più onore, i poggibonsesi, anziché le pesche, mandarono un carico di fichi. Questi però non furono graditi, tanto che furono tirati tutti addosso ai poveri carrettieri, i quali, tornando precipitosamente indietro, pare abbiano esclamato:

- Meno male che non erano pesche! - 

Da questo episodio, secondo alcuni, sarebbe derivato il modo di dire “meno male che non son pesche” o addirittura l’altro “fare una pesca in un occhio”.

Secondo altri però il modo di dire sarebbe derivato da un’antica novella che così narra:

Uno fedele d’un Signore che tenea la terra, essendo ad una stagione i fichi novelli, il Signore passando per la contrada di questo suo fedele, vide in su la cima d’un fico un bel fico maturo e fecelsi [se lo fece] cogliere. Il fedele pensò: da che gli piacciono, io li guarderò per lui. Quando furono maturi, gliene portò una soma, credendo venire in sua grazia. Ma quando li recò, la stagione era passata, che n’erano tanti che quasi si davano a’ porci. Il Signore, veggendo quelli fichi, si ritenne bene scornato[disonorato] e comandò a’ fanti suoi che ‘l legassero e togliessero que’ fichi e a uno a uno glieli gettassero entro il volto. E quando il fico gli veniva presso all’occhio, quelli gridava:

-         Domine, ti lodo!

Li fanti, per la nuova cosa, l’andaro a dire al Signore. Egli il dimandò perché elli diceva così e quelli rispose:

-         Messere, perché io fui incorato [avevo pensato]di recare pesche, che se io l’avessi recate, io sare’ ora cieco.

Allora il Signore cominciò a ridere e fecelo sciogliere e vestire di nuovo e donolli per la nuova cosa ch’avea detta”.

Certo è che le pesche dovevano piacere molto a Firenze, come si deduce da un ulteriore episodio. Nel 1532, caduta la repubblica, i Medici tornano al potere a Firenze. Il duca Alessandro si dimostra molto benevolo verso Poggibonsi, memore del buon rapporto della città con la sua famiglia, alcuni membri della quale avevano esercitato la carica di podestà a Poggibonsi in passato. Scrive addirittura una lettera al Comune invitando le autorità comunali a fargli pervenire i loro desideri, che lui cercherà di esaudire.  I Poggibonsesi non si lasciano pregare e spediscono come ambasciatore a Firenze il gonfaloniere Sebastiano di Giovanni Bronconi con una serie di richieste, tra le quali anche quella di essere liberati dal tributo delle pesche. Le richieste vengono tutte accolte, ma sulle pesche non si transige e Poggibonsi continua così a spedire ogni anno il suo carico, fino al 1772, anno in cui il granduca Pietro Leopoldo libera finalmente la città da tale gravame durato più di quattro secoli. Era un tributo che ogni anno richiedeva uno stanziamento di denaro e la nomina di due “pescaioli”, incaricati di provvedere al bisogno. Nel 1760 tale tributo è stimato in scudi 38.5.4, una cifra non indifferente, dato l’esiguo bilancio comunale.

 Le pesche, occorre dire, non erano l’unica frutta apprezzata del nostro territorio. Antonio Pucci, infatti, rimatore fiorentino del XIV secolo, in una rima intitolata “Proprietà di Mercato Vecchio” accenna alle “mele calamagne” (o francesche) provenienti a Firenze da Poggibonsi in grandi “some”:

 

                            “…Recanvi, quand’è ‘l tempo, i contadini

                            di mele calamagne molte some

                            da Poggibonsi e d’altri confini;

                            e di più cose ch’io non dico il nome,

                            di fichi secchi e pere carvelle,

                            mele cotogne e ogni simil pome…”


Franco Burresi

(V. anche Burresi: “La croce e l’albero”; Burresi-Minghi: “Poggibonsi al tempo di Pietro Leopoldo, Napoleone e Garibaldi”).

Nell’immagine: frammenti di delibere comunali del sec.XVII in cui si parla del “donativo delle pesche di S.Bernardo”, dei “peschaioli” (sic), dello “stanziamento per le pesche”.

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Pubblicato il 30 maggio 2021

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