Quando nasce un bambino, nasce anche una madre

(che ha bisogno di essere accompagnata a fiorire)

 GIULIA LOTTI
  • Condividi questo articolo:
  • j

Con l’emergenza sanitaria e le relative restrizioni anti-contagio, la Casa di Reclusione dove lavoro, ha attivato le videochiamate tra i detenuti e i loro familiari. Un’iniziativa che ha permesso alle persone recluse di entrare nella quotidianità dei congiunti, vedendo di nuovo spazi e persone con cui da tempo non erano in contatto diretto.

Di solito, nei giorni dedicati ai colloqui, si vedono arrivare in istituto mogli, compagne, madri nei loro abiti migliori, con un sorriso teso ma ben presente in volto, con buste di abiti  puliti e cibo da offrire in dono. Appaiono forti, profumate, perfettamente capaci di vestire il ruolo di madri che fanno anche da padri, mogli in grado di attendere mentre il tempo scalfisce i loro lineamenti e ne indurisce lo sguardo.

Le videochiamate, invece, hanno spogliato molte di loro da quelle maschere. Meno trucco, forse nessun profumo, niente capelli freschi di piega, bimbi piccoli che corrono per stanze a volte in disordine; bimbi che non sempre riescono a fermare di fronte allo schermo per tutta la durata della chiamata con il padre.

I detenuti mi dicono di aver, forse per la prima volta, “visto” le loro compagne. Non soltanto loro, hanno finalmente visto anche la stanchezza, la tristezza che a volte le abita, il senso di impotenza di fronte a crescere dei figli con una mancanza, un’assenza che le lettere e qualche colloquio faticano a colmare.

Hanno visto che quei chili di troppo forse non solo semplicemente dovuti a una cattiva alimentazione, ma raccontano qualcosa che ha a che fare con l’ingoiare, un giorno dopo l’altro, bocconi di una vita che non riconoscono come propria, che ha perso il profumo della speranza, della condivisione e della vicinanza.

Mi sa che mia moglie è depressa - Mi dice un detenuto. - Le dico di portare la bambina al mare e di comprarle dei vestiti nuovi ma ogni videochiamata mi dice che sì, poi lo farà-

Penso anche agli ultimi fatti di cronaca, a quella mamma scomparsa insieme al suo piccolo e trovata purtroppo morta nei boschi circostanti l’autostrada dove aveva avuto un banale incidente.

I volti di tutte queste madri si avvicendano nella mia mente, sì perché li vedo tutti, ognuno a proprio modo, accomunati dal perdere, all’interno dell’esperienza della maternità, la loro unicità di persone, di donne con bisogni, desideri, interessi, a volte anche dilanianti paure.

Farà rabbrividire molti ma credo che queste donne non siano “cosa lontana da noi”, solo perché mogli di pregiudicati o persone finite nella cronaca nera.

Quando nasce un figlio, nasce anche una madre. Solo che di lei poi non si occupa più nessuno perché pare che una madre debba venire al mondo con un patrimonio di energia inesauribile, di coraggio, di spirito di abnegazione, di capacità innata di unire il prima con il dopo di sé, di resistenza al sonno, alla fame, talvolta anche al bisogno di socializzare.

La verità è, però, che le madri sono, come tutti, persone anche fragili, talvolta. Sono donne che, se non dovessero operare drastiche scelte quotidiane, continuerebbero ad amare ciò che le appassionava prima della maternità: il lavoro scelto, lo sport con cui si liberavano dai pensieri di troppo, la natura o la città, la musica, l’arte, la scrittura, la telefonata con l’amica senza un timer puntato alle tempie. Soprattutto continuano senza dubbio a cercare  uno sguardo d’amore e interesse, al di là dei ruoli e dei doveri.

Le madri sono chiamate a una sfida grande: unire il loro nuovo ruolo con il loro essere persone. Cucire la loro unicità con l’esperienza materna, rappresenta quel filo di continuità del sé senza il quale non c’è accesso a una dimensione che dia veramente respiro e progettualità. Le madri camminano su un filo sottile tra desiderio di accudimento e bisogno di libertà ed è essenziale che quel filo non si spezzi.

La società deve aiutare a cucire, non esacerbare il taglio profondo tra le parti.

I familiari, quando possono, dovrebbero regalare tempo, comprensione, compagnia, ribadire che nessuno le vuole perfette, esenti da paure o errori.

Hanno bisogno di qualcuno che tifi per la loro felicità, per il coraggio di coltivare ciò che erano e che continuano di fatto ad essere. Qualcuno a cui, se occorre, poter lasciare un attimo il testimone.

Accompagnamo le madri a nascere con la stessa clemenza e amore con cui si accompagnano i primi passi di un bambino.

Proviamo ad accettare le loro cadute, i bisogni, le paure profonde; togliamo dalle loro spalle pesi e offriamo, in cambio, leggerezza, tenerezza, una carezza. Riconosciamo le loro ombre e forniamo luce, aiuto, protezione, presenza, invece di pensare che con il tempo tutto passerà.

Quando una donna, per essere una buona madre, si trova a dover rinunciare a tante, troppe parti di sé, è facile che si senta svuotata, senza energia da offrire al bambino.

E le parti che non si riesce a vivere, abitano nella mente, come imperativi, come ospiti indesiderati ma necessari, come fantasmi di qualcosa che manca terribilmente.

La solitudine (vera o percepita) poi, sgancia spesso dalla realtà, fa sì di non riuscire più a dare il giusto peso alle cose del quotidiano, finisce per trasformare in stato d’allarme anche un tamponamento, una gita al mare, perfino una spesa al supermercato.

La mente è un ecosistema delicatissimo e ci vuole davvero poco, talvolta, per alterarne gli equilibri. Spesso non ci sono colpe da attribuire o carnefici da trovare.

Ci sono, semmai, piccoli o grandi segnali da intercettare. Ci vuole, senza dubbio, la voglia di cambiare lo stereotipo della madre che somiglia ad un’invincibile eroina. Stereotipo che, ad onor del vero, campeggia a volte anche tra le donne.

Non elogiamo più la perfezione delle madri ma la loro capacità di cucire tenacemente una coperta in stile patchwork, dove non manca proprio nessuna trama né sfumatura di colore del loro essere, prima di ogni altra cosa, persone uniche e preziose, nonostante i timori e le vulnerabilità.

Dove ci sono ponti, fili, luci accese nella notte, mani tese, specchi clementi ma sinceri, la patologia perde il suo potere assoluto e totalizzante, lasciando il posto alle risorse e, quando il vento è favorevole, perfino alle rinascite.

Giulia Lotti - Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, dove vivo con la mia famiglia. Mamma di Stella e Pietro, rispettivamente di 5 e 9 anni. Svolgo sul territorio l’attività di psicoterapeuta, lavorando sia in libera professione, alla Pubblica Assistenza di Poggibonsi, che presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. La mia passione per le storie di vita nasce fin da bambina, quando chiedevo a mia nonna di leggermi fiabe e racconti i cui protagonisti erano persone impegnate nelle varie tappe del vivere quotidiano, che amavano, soffrivano e, a loro modo, provavano a disegnare i confini entro i quali esistere. Con il tempo, ho coltivato l’amore per la lettura e per la scrittura introspettiva, scegliendo poi un lavoro attraverso cui le storie e i protagonisti dei racconti di vita trovassero uno spazio, quello della terapia, appunto, dove potersi fermare, raccontarsi e raccogliere l’entusiasmo necessario per riprendere il viaggio. La rubrica “Una stanza tutta per sé” vuole essere un’occasione per riflettere, condividere storie, tessere un filo comunicativo tra le persone. Una stanza per noi ma con finestre comunicanti, da cui poter parlare, ascoltare, entrare in sintonia con noi stessi e con gli altri.

Potrebbe interessarti anche: La Toscana nel bicchiere in visita a Lari

Torna alla home page di Valdelsa.net per leggere altre notizie 

Pubblicato il 23 agosto 2020

  • Condividi questo articolo:
  • j
Torna su