Respirare come le balene: vivere (o sopravvivere) ai tempi della pandemia

La storia di D.

 GIULIA LOTTI
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Fino a quando non glielo hanno fatto notare, D. pensava di essere semplicemente un tipo svelto. Una persona multitasking, come si direbbe oggi. Riusciva a comunicare molto velocemente, a portare avanti diversi compiti in contemporanea, a pensare tanto e in fretta. Solo alla fine di tutte queste belle cose, mangiava un pò di ossigeno, inspirando velocemente ed espirando via il materiale di scarto, quel tanto che le bastava per ripartire. Un pasto frugale parzialmente terminato, tra una lista di doveri lunga come gli scontrini della spesa in zona rossa, quando al supermercato si va solo una volta ogni tanto e ci si rifornisce per un bel pò.

Un giorno, mentre raccontava qualcosa con la velocità con cui le segretarie di una volta erano addestrate a battere le loro dita sulla tastiera, venne fermata da un’esclamazione che, sul momento, trovò abbastanza infelice, tanto che si sentì ferita. In fondo lei voleva solo essere efficiente, raccontare ciò che doveva senza prendere troppo posto o  tempo altrui. Che c’era di male?!

“Il tuo respiro, che ti concedi solo dopo una lunga apnea di parole, somiglia al soffio delle balene, lo hai mai notato?”.

Si ricordò, d’un colpo, di quelle immagini dei documentari in tv, guardati distrattamente mentre stirava o cucinava. Le venne in mente la maestosità della balena che, in mare aperto, riemerge dall’acqua per respirare, spruzzando aria dagli sfiatatoi posizionati sul dorso.

Polmoni da mammifero e corpo da pesce: un pò animale di terra, un pò d’acqua. Un difficile quanto naturale equilibrio per sopravvivere. Rispolverò un pò di nozioni base su questo animale, che d’acchito le era sembrato troppo grosso e sgraziato per paragonarlo a lei, da sempre in lotta per mantenere un’immagine gradevole e curata.

Trovò però anche motivo di orgoglio il sentirsi paragonata alla vita di un essere disposto a dosarsi nell’arte dell’equilibrio. Lesse, infatti, che la balena, per rimanere sott’acqua, rallenta il battito cardiaco all’incirca della metà, mentre la pressione dell’acqua le comprime i polmoni.

D. lavorava come responsabile in una struttura per anziani, aveva tre figli  di età piuttosto ravvicinata tra loro, un marito con cui si riprometteva di tornare a parlare con calma, di progettare due giorni di vacanza per quando si potrà, di scrivere messaggi che mettessero,  per una buona volta, in prim’ordine il sentire rispetto allo “scusa, passi tu a prendere il pane?”, oppure “ ricordiamoci che il 5 del mese scade la bolletta della luce”.

Mentre D. era a lavoro, si ritagliava un attimo per coordinare password e connessioni della didattica a distanza dei figli. E mentre era a casa, spesso programmava turni ed attività di lavoro da rispedire per mail, portando avanti la cena, pensando ad un’amica a cui da troppo tempo rimandava di telefonare, giocando a parrucchieri con la figlia, anche se il giorno prima era stata, dopo secoli, davvero a farsi una piega.

Pensò alle sue, di apnee, ogni volta che rimandava di un respiro il suo ascoltarsi. Ogni volta che, immergersi, significava rispondere ad una priorità, vera o presunta, mettendosi da parte.

Inspirare e nuotare, ad ogni bracciata dirsi “dai, ancora un pò e avrai finito. E quando lo sforzo sembra averti fatto raggiungere la riva, essere di nuovo risucchiata da un’onda di cose da fare e, in quest’onda, essere per forza o per amore, l’ultima della lista. D. non credeva di essere una madre migliore, o una lavoratrice o moglie perfetta, semplicemente seguiva la sua natura, o qualcosa che aveva nel tempo visto ed appreso. Lunghe immersioni per fare più cose possibili, piccole e brevi emersioni per rifornire il carburante. Poi ripartire, in una vita da subacqueo instancabile.

Ma in quel respiro cosa c’era dentro? Di cosa era fatto l’ossigeno di cui si nutriva prima di tornare “pesce”? Era fatto di istanti in  cui era costretta a scegliersi e a prendersi cura di sé. Era fatto di pause in cui ciò che c’era bastava e non si costringeva ad un ultimo tuffo di fine giornata. Era fatto di piccoli o grandi dolori a cui l’aria faceva spazio. Di frammenti di felicità che, inspirando, venivano mandati sul fondo dell’anima, come scorta per i momenti di vento e di tristezza.

Era un attimo rubato al gioco, tra una staffetta di doveri. Era un “chissenefrega” tra i pensieri seri che, in fila indiana, si susseguivano nella mente. Era la ricerca di un orizzonte da guardare per allargare il campo visivo. Era un punto improvviso e agognato, all’interno di un periodo grammaticale lunghissimo. Era il bagliore della luce mattutina, dopo una notte insonne. Istanti di pace tra le faccende della quotidianità.

Giulia Lotti - Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, dove vivo con la mia famiglia. Mamma di Stella e Pietro, rispettivamente di 5 e 9 anni. Svolgo sul territorio l’attività di psicoterapeuta, lavorando sia in libera professione, alla Pubblica Assistenza di Poggibonsi, che presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. La mia passione per le storie di vita nasce fin da bambina, quando chiedevo a mia nonna di leggermi fiabe e racconti i cui protagonisti erano persone impegnate nelle varie tappe del vivere quotidiano, che amavano, soffrivano e, a loro modo, provavano a disegnare i confini entro i quali esistere. Con il tempo, ho coltivato l’amore per la lettura e per la scrittura introspettiva, scegliendo poi un lavoro attraverso cui le storie e i protagonisti dei racconti di vita trovassero uno spazio, quello della terapia, appunto, dove potersi fermare, raccontarsi e raccogliere l’entusiasmo necessario per riprendere il viaggio. La rubrica “Una stanza tutta per sé” vuole essere un’occasione per riflettere, condividere storie, tessere un filo comunicativo tra le persone. Una stanza per noi ma con finestre comunicanti, da cui poter parlare, ascoltare, entrare in sintonia con noi stessi e con gli altri.

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Pubblicato il 11 aprile 2021

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